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41 anni fa moriva assassinato Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese

Ambrosoli, l'eroe borghese che lottò contro Sindona

41 anni fa moriva assassinato Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese

Sono trascorsi 41 anni dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli, morto per mano di un sicario mafioso mandato dagli Stati Uniti su richiesta di Michele Sindona.
Sindona era un faccendiere, un banchiere, un criminale.

Dal 1974, in qualità di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, Ambrosoli indagava sull’impero bancario di questo pericoloso criminale. Subito aveva capito che le opacità erano più delle trasparenze, che nei conti c’erano pesanti irregolarità.
All’interno di un sistema politico-finanziario corrotto, l’avvocato si muoveva tra le difficoltà e i rischi. E ne era ben consapevole.

«Pagherò a caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto. (…)
Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa».
Così scriveva in una lettera alla moglie Anna, qualche tempo prima di essere freddato.

Aveva una mansione troppo grande per un uomo solo.
In un campo di battaglia in cui agivano poteri occulti criminali, la mafia, la P2 e politici vicini a Sindona (che valutarono persino di far pagare allo Stato il buco nero di 268 miliardi lasciato dalla sua banca privata), Ambrosoli era indifeso.

In questo clima di fuoco, la liquidazione della Banca Privata Italiana andò avanti con difficoltà, ma questo non scoraggiò Ambrosoli, anzi. Aumentò l’intensità della sua azione e a dicembre volò a New York per collaborare con alcuni giudici americani, che nel frattempo stavano cercando prove per l’istruzione del processo sul dissesto della Franklin National Bank.
Il cerchio si stava stringendo e Sindona capì di avere poche possibilità di cavarsela. Così scelse di togliere di mezzo Ambrosoli e, per farlo, si rivolse alla mafia italoamericana.

Forse Ambrosoli sperava che le minacce non si concretizzassero. Forse credeva che lo avrebbe tutelato la certezza che, se gli fosse capitato qualcosa di male, quel male avrebbe portato una firma fin troppo identificabile.
Eppure, nell’afosa notte milanese tra l’11 e il 12 luglio 1979, l’avvocato venne ucciso davanti al portone della sua casa. Stava rincasando da una serata trascorsa con amici, quando uno sconosciuto lo ha avvicinato, lo ha chiamato per nome e poi gli ha sparato quattro colpi di pistola.

Morì nell’ambulanza che lo sta portando in ospedale, lasciando l’amata moglie e tre figli, poco più che bambini: Francesca (11 anni), Filippo (10 anni) e Umberto (8 anni).
Al suo funerale si presentò soltanto Paolo Baffi, il nuovo governatore della Banca d’Italia.

Nessun esponente del Governo, nessuna autorità pubblica. Nonostante Ambrosoli fosse un servitore dello Stato.
Un uomo coraggioso, che aveva accettato il rischio insito nel suo incarico per rispetto verso il nostro Paese, diventando così un “eroe borghese”.